Pare di sentirlo, Alfredo Martini, con la sua bella voce: “Su, ragazzi, non esageriamo”. Compie 90 anni e dice che a quest’età il regalo più bello è ogni giorno in più che passa. E sa, ma è troppo schivo per ammetterlo, che l’affetto che lo circonda in questi giorni è tutto vero, non ha nulla di dovuto, di rituale, di posticcio. Gli spagnoli lo definirebbero un hombre vertical, gli inglesi un gentleman, i francesi un grand seigneur. Gli italiani possono scegliere. Uno che ha vissuto con la schiena dritta, una bella persona. Lo definirei un uomo-borraccia, uno che quando serve c’è ed è bello sapere che ci sia. Alfredo, a proposito di borracce, è stato un grande gregario e non ha vinto moltissimo. Ma in quegli anni, dominati dal trio Coppi-Bartali-Magni e, oltre confine, coi vari Bobet, Robic, Van Steenbergen, Koblet, Kubler, Gaul, Anquetil, Van Looy, vincere non era facile per nessuno. Sette vittorie tra ’46 e ’51, ma piazzamenti importanti: terzo in quella famosa Cuneo-Pinerolo del ’49 dopo Coppi e Bartali, terzo alla fine del Giro ’50, con un solo giorno in maglia rosa, e ancora secondo a una Parigi-Tours, terzo a una Bordeaux-Parigi, sempre tra i primi 10 al Giro tra il ’46 e il ’51. E tre volte azzurro ai mondiali, quando le squadre erano composte da sei corridori e tre posti erano già prenotati dal trio già citato. Smette a 37 anni, più per un’ulcera duodenale che per stanchezza.
Poi un po’ di pace in famiglia, nel negozio di abbigliamento maschile che aveva aperto nel’51 fino a che, è il 1969, non sale come ds sull’ammiraglia della Ferretti. In quegli anni per la Gazzetta seguivo ogni tappa su un’ammiraglia differente, e quella che offriva i migliori panini era della Ferretti. Vince un Giro con Gosta Pettersson (“l’unico svedese che pativa il freddo”). Dal ’75 al ’98 è ct azzurro. Bilancio: 6 primi posti, 7 secondi, 7 terzi. Lui che riusciva, da corridore, a mediare tra Coppi e Bartali, non ebbe difficoltà a mettere d’accordo, almeno per un giorno, quel giorno, due che si parlavano appena, come Moser e Saronni, o che si parlavano spesso ma per dirsi di tutto, come Bugno e Chiappucci.In apparenza, c’è un Martini 1 e un Martini 2, quello che pedala e quello che consiglia, stimola, studia strategie. In realtà, è sempre lo stesso uomo di buone maniere, idee chiare, profonda saggezza, e non parlo solo delle due ruote, che attraversa più di 80 anni di sport. Aveva 7 anni quando papà Pietro gli regalò la primi bici, una Francioni color argento, pagata 420 lire. “Babbo ne prendeva 220 a quindicina, non so come abbia fatto a sostenere quella spesa. Pedalai fino alla salita delle Croci per veder passare Binda”. Gli sarebbe piaciuto studiare al collegio Bolognini di Prato, ma costava troppo. “Leggevo di tutto: Cronin, London, Steinbeck che il fascismo arrivò a proibire. Il mio libro preferito rimane Martin Eden”. Il padre lavorava come addetto ai forni alla Richard Ginori. “Posto garantito, ci hanno lavorato anche mia sorella e mia fratello, ma quanti casi di silicosi. Passare i 50 era un colpo di fortuna. Te lì non ci vai, disse babbo, e mi trovò un lavoro alla Pignone, da apprendista. Ero addetto ai detonatori delle mine sottomarine. Prendevo 65 centesimi all’ora, turni di 8 e poi di 12 ore”.
Martini partecipa alla Resistenza col gruppo del comandante Aligi, già tenente dell’esercito, attivo sul monte Porello e nel ’47 sposa Elda. Ma al padre di lei, come si usava, si era già presentato nel ’43. “Non scorderò mai quello che mi disse: noi non abbiamo nulla, abbiamo solo la dignità, alla quale teniamo molto. Lei si regoli di conseguenza”. E lui si regolò di conseguenza, come sempre, perché la dignità gli ha sempre tenuto compagnia. Volete sentirlo parlare di doping? “Il doping ti toglie la dignità, è un gesto di vigliaccheria. Si possono guadagnare tanti soldi, ma sporchi, e poi si pagano con gli interessi. Lo pensavo già ai miei tempi, quando giravano simpamina e stenamina. Davano uno e toglievano due, nel senso che un pochino più forte andavi, ma ti passava l’appetito e non dormivi. E allora bisogna allenarsi bene, saper soffrire, voler soffrire. Sono felice di aver scelto il ciclismo, con la sofferenza che comporta, ma non è che i miei compagni alla catena di montaggio soffrissero di meno. Noi giravamo l’Italia, l’Europa, vedevamo posti, conoscevamo persone. Mi reputo un fortunato. Da corridore andavo a letto alle 9 di sera, già le 10 erano un mezzo stravizio, ma nel ciclismo solo la condizione atletica ti tiene a galla, non è come il calcio dove un fuoriclasse con due tocchi può risolvere la partita. Nel ciclismo se non hai gambe perdi le ruote del gruppo. Più del sangue arricchito, servono un corpo sano e una mente fresca”.
Altri ricordi. “Nel Giro del ’46 arrivo sesto a Chieti. Sulla Gazzetta del giorno dopo sotto il titolo ‘Alfredo, Alfredo’ c’è un pezzo di Bruno Roghi che parla di me e si conclude con queste parole: ricordarselo e seguirlo. La mia vittoria più bella è il Giro dell’Appennino del ’47 dopo 200 km di fuga. M’intervista oltre il traguardo un biondino che diventerà una delle più belle firme del ciclismo mondiale, Mario Fossati. E poi sai cosa c’è di bello nel ciclismo? Mentre pedali puoi pensare, in tanti altri sport no”. C’è qualcosa di bello anche nel giornalismo: si possono conoscere uomini come Alfredo Martini. (17 febbraio 2011)